L’Italia che resiste

Italia che resisteIl 2 febbraio è stato il giorno della manifestazione “L’Italia che resiste” ashtag #Italiacheresiste!).

Una catena umana di solidarietà e denuncia che ha coinvolto istituzioni, associazioni e cittadini che si sono stretti in un “abbraccio” di solidarietà contro i provvedimenti liberticidi del #governogialloverde, per dire no alle scelte inumane di chi sta interrompendo i percorsi di assistenza e integrazione, di chi istiga all’odio e alla xenofobia. Per protestare contro il decreto sicurezza del governo, il razzismo e i respingimenti delle navi che soccorrono migranti in mare.

Un’iniziativa organizzata in molti comuni per esprimere il dissenso verso le politiche del governo sull’immigrazione. Si è trattato di un’autoconvocazione spontanea: “perché abbiamo scelto di resistere alle scelte inumane di chi vorrebbe lasciar morire in mare chi scappa dalla guerra, dalla fame e dalla povertà. Perché non si torni indietro mai più”.

Il movimento ha avuto origine a Torino ed è stato in grado di coinvolgere migliaia di persone in tantissime piazze, da Torino a Palermo, ma non solo in Italia. Anche a Bruxelles e Londra gruppi spontanei hanno dato vita a quasi 300 manifestazioni con la bandiera de “L’Italia che resiste”,

Nell’annuncio diramato in tutti i Comuni italiani si chiesto di portare con sé un simbolo del salvataggio in mare, per ricordare, poco dopo il Giorno della memoria, “perché non vogliamo essere come quelli che in tempo di guerra hanno fatto finta di non vedere quello che stava accadendo”.

Ricordiamo, con l’occasione, quanto ci ha detto, nel suo discorso di fine anno, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Certo, la sicurezza è condizione di un’esistenza serena. Ma la sicurezza parte da qui: da un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune. La vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza. 

Qualche settimana fa a Torino alcuni bambini mi hanno consegnato la cittadinanza onoraria di un luogo immaginario, da loro definito Felicizia, per indicare l’amicizia come strada per la felicità. Un sogno, forse una favola. Ma dobbiamo guardarci dal confinare i sogni e le speranze alla sola stagione dell’infanzia. Come se questi valori non fossero importanti nel mondo degli adulti.

In altre parole, non dobbiamo aver timore di manifestare buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società. Sono i valori coltivati da chi svolge seriamente, giorno per giorno, il proprio dovere; quelli di chi si impegna volontariamente per aiutare gli altri in difficoltà.

Il nostro è un Paese ricco di solidarietà. Spesso la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni. È l’immagine dell’Italia positiva, che deve prevalere.” 

Queste parole, in definitiva, sono state lo stimolo per la manifestazione de “L’Italia che resiste”.

Il sacrificio di Cesare Damiano per Nicola Zingaretti

Se lo slogan elettorale di Nicola Zingaretti è “prima le persone”, Cesare Damiano l’ha fatto proprio in pieno nei confronti del candidato più quotato alla segreteria del PD: si è ritirato dalla competizione proprio per favorire la persona di Nicola.

Il 25 gennaio scorso ho seguito nei locali della V circoscrizione di Torino in Via Stradella uno dei dibattiti di “Piazza Grande” il network messo insieme per propagandare la candidatura di Nicola Zingaretti alla segreteria del PD.

Il tema della serata: “Sviluppo, lavoro e pensioni – Un’Italia del futuro” ha visto protagonisti: Mary Gagliardi segretaria del Circolo ospite, Romano Gilardi, Andrea Giorgis, Anna Rossomando, Gianna Pentenero e Cesare Damiano, moderati da Umberto D’Ottavio navigatissimo politico locale, ex Sindaco di Collegno per due legislature consecutive e Deputato uscente del Parlamento.

Su tutti sono stati significativi gli interventi di Gianna Pentenero consigliere della Regione Piemonte e Cesare Damiano ex sindacalista della CGIL nonché navigatissimo dirigente politico del Partito Democratico ed ex Ministro del Lavoro.

Gianna Pentenero ha evidenziato tutte le criticità del provvedimento governativo che istituirà il “reddito di cittadinanza”, cavallo di battaglia del M5s di Luigi Di Maio. I Centri per l’Impiego (collocamento pubblico al lavoro) che dovrebbero essere protagonisti di questa riforma, atta alla redistribuzione della ricchezza nazionale, non sono più in grado di funzionare in quanto, da tempo, sotto organico e con mezzi informatici obsoleti e non comunicanti: addirittura sono difficili gli scambi comunicativi all’interno di una singola unità operativa.

In Piemonte gli addetti ai Centri sono 420, nell’intera Italia sono 8.000. Occorre quindi correre ai ripari e il Governo gialloverde prevede di affiancare questa struttura pubblica con l’assunzione di circa 10.000 addetti da assegnare a Enfap Servizi una entità privata che gestirà attraverso le controverse figure dei Navigator un delicato servizio pubblico. Appaiono evidenti le storture organizzative al limite della costituzionalità.

Dubbi e perplessità vengono espressi in merito alla effettiva sostenibilità delle principali misure della legge di Bilancio approvata dal Parlamento a fine anno a colpi di voti di fiducia: Reddito di Cittadinanza e Quota Cento per le Pensioni.

Due misure che Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro che, durante l’esecutivo di Romano Prodi, progetto per primo il sistema delle “quote” al riguardo delle pensioni critica con veemenza. Damiano afferma: “le quote le ho inventate insieme a Romano Prodi nell’ormai lontano 2007. Il concetto di “quota”, all’origine, aveva una caratteristica, e cioè la flessibilità. Nel senso che, ad esempio, quota 95 poteva essere la somma di 60 anni di età e 35 di contributi, oppure di 58 anni di età e 37 di contributi versati.

I due addendi, quindi, composti da età anagrafica e anzianità contributiva, potevano alzarsi e scendere. La cosiddetta “quota” di Salvini ha invece un numero fisso:38 anni di contributi e 62 anni di età. In quel caso la somma fa 100, ma se un lavoratore consegue il traguardo dei 38 anni di contributi a 63 anni di età la quota diventa 101, se l’obiettivo lo raggiunge a 64 anni la quota diventa 102 e così via. È evidente che non si tratta della formula originale. In ogni caso io non penso che possiamo opporci ideologicamente a questa misura, perché è una nostra invenzione, una bandiera del Pd che abbiamo lasciato nelle mani della Lega.

La nostra opposizione si deve quindi esercitare sul funzionamento di questi strumenti, e la critica va avanzata su un punto: la quota di Salvini aiuta ad andare in pensione una certa categoria di lavoratori, cioè i lavoratori maschi delle grandi imprese del nord che hanno il vantaggio di avere una lunga carriera contributiva. 38 anni di contributi versati senza nessun vuoto oggi non sono più alla portata di tutti.

Quota 100 quindi, da sola, non basta per l’obiettivo della flessibilità del sistema previdenziale. Non a caso noi abbiamo chiesto di rendere strutturale l’Ape Sociale e il governo ha risposto parzialmente alla nostra domanda prolungando di un solo anno questo strumento.

A differenza di altri esponenti del mio partito – come Renzi, che non ho apprezzato quando si è pronunciato contro questi strumenti, Ape, Quote e reddito di cittadinanza – non penso che le due misure si contrappongano, ma che siano complementari. Una aiuta l’altra, ma una da sola non basta. Il suggerimento è di procedere con emendamenti che migliorino l’Ape Sociale, nel senso che è necessario includere nei lavori gravosi l’edilizia, i lavori stagionali e poi cancellare il vincolo che consente ai disoccupati di andare in pensione con 30 anni di contributi ma a patto che abbiano utilizzato gli ammortizzatori sociali come la Naspi. Anche se non li hanno utilizzati, bisogna far in modo che i disoccupati di lungo periodo possano andare in pensione.

In più io dico che il governo si è dimenticato della nota salvaguardia degli esodati e questo è molto grave. Noi dobbiamo chiedere che il problema venga risolto, perché ci sono 6 mila lavoratori che, a causa della riforma Fornero, non hanno più il lavoro dal 2012 e non hanno ancora la pensione. Questa era una promessa di Di Maio non mantenuta.”

Per quanto riguarda il Congresso del Partito Democratico Cesare Damiano ritiene che occorra essere inclusivi, infatti il regolamento del Partito prevede che al voto espresso dagli iscritti ai Circoli vada affiancato il voto dei partecipanti alle Primarie non iscritti. Per poter avere vita facile al Congresso occorre che Nicola Zingaretti ci si presenti con oltre il 50% dei suffragi. Ecco il motivo principale che lo ha spinto a rinunciare a presentarsi alla competizione per la segreteria.

Infine, secondo Damiano, appare evidente che il governo non riuscirà a reperire i 45 milioni di Euro occorrenti sui tre anni di durata previsti per i due provvedimenti economici bandiera del contratto di governo gialloverde. Questo determinerà probabilmente la caduta del governo.

Come opposizione il Partito Democratico deve tendere alla ricostruzione di un pavimento di diritti che il partito stesso ha largamente contribuito a distruggere, insieme ad altri e sotto varie denominazioni, negli ultimi 40 anni di vita politica italiana.

La distribuzione del lavoro e del reddito, temi tipicamente di sinistra, non possono essere lasciati in mano alla destra al governo che appare incapace di gestire una situazione complicatissima anche e soprattutto in relazione ai rapporti internazionali ed in particolare europei.

No Brexit?


Theresa May è riuscita a passare indenne da un voto cruciale per il suo governo, dopo la sconfitta durissima sul suo accordo con l’Ue per la Brexit che risulta oramai sepolto; con 325 a 306 è stata respinta la mozione di sfiducia contro di lei e il suo governo.

Il leader laburista Jeremy Corbyn ha affermato alla Camera dei Comuni che il voto sarebbe stato decisivo per la tenuta dell’esecutivo e quindi per la sua scalata al governo di Sua Maestà, ma ancora una volta il voto dei deputati del Democratic Unionist Party, i lealisti nordirlandesi, determinati a impedire che Corbyn formi un nuovo governo è risultato decisivo per il destino attuale di Theresa May.

Ora che ce l’ha fatta, ricomincerà tutto daccapo, la premier britannica riprenderà a tessere la tela con i suoi per un nuovo, al momento irrealistico accordo, per allontanare lo spauracchio del 29 marzo, quando il Regno Unito, senza un’uscita concordata con l’Ue, verrebbe brutalmente sbalzata fuori dall’Unione, con conseguenze economiche e commerciali potenzialmente gravissime.

Il partito della May risulta dilaniato da correnti diversissime, dai brexiters agli europeisti. Il punto è che non esiste un piano B dopo che le hanno “ammazzato” l’accordo raggiunto con enorme fatica con l’Europa lo scorso novembre dopo due anni di negoziati.

Inoltre, il nodo fondamentale del backstop, una assicurazione concordata con l’Unione Europea per preservare la fluidità e l’invisibilità del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda; pilastro, questo, fondamentale all’accordo di pace sottoscritto il Venerdi Santo nel 1998m pare tuttora irrisolvibile: i conservatori ribelli e gli unionisti nordirlandesi (che forniscono appoggio esterno a May in Parlamento) lo vogliono rendere estraneo a un nuovo accordo mentre per l’Europa è imprescindibile.

Quindi la  May è rimasta a galla, ma lo stallo rimane immutato. Per questo si pensa di rinviare la scadenza del 29 marzo, cosa che Londra può richiedere ai 27 paesi membri Ue che in maggioranza dovrebbero essere favorevoli e approvare.

Angela Merkel però esclude la possibilità di un nuovo accordo, anche se si dice possibilista sui tempi da dare alla Gran Bretagna per trovare una soluzione interna, su cui – specifica la cancelliera – non ci saranno pressioni europee di alcun tipo. Cioè non infierire su May, ma difendere gli interessi europei. È questa la linea di Macron: “Abbiamo già raggiunto il limite di quello che potevamo fare nel contesto dell’accordo. Per risolvere un problema di politica interna britannica non possiamo non difendere gli interessi degli europei”.

Esaminiamo ora concretamente gli scenari che si preparano per la negoziazione fra il Regno Unito e l’Unione Europea:

– il Regno Unito potrebbe scegliere di entrare nello Spazio Economico Europeo (SEE) come l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia. Questa opzione preserverebbe i vantaggi della legislazione del mercato unico, ma non consentirebbe al Regno Unito di influenzare direttamente il processo legislativo dell’UE;

– è molto probabile che il Regno Unito cercherà di negoziare con l’UE più accordi su temi specifici (come i servizi finanziari/bancari) oppure un singolo accordo trasversale ai settori (una sorta di accordo omnibus). Tali accordi possono concedere il diritto alle imprese europee di stabilire succursali o filiali nel Regno Unito e viceversa, e anche prevedere limitati diritti relativi ad attività transfrontaliere dirette.

Entrambe le opzioni minimizzerebbero gli effetti negativi della Brexit. Al contrario, se nessuna di queste alternative dovessero essere perseguita, le barriere giuridiche potrebbero limitare profondamente l’accesso al mercato finanziario di Londra.