Un affilatissimo duello quello che si è verificato nei giorni scorsi al Senato tra Mario Monti e Matteo Renzi: sono affiorate due visioni opposte dell’Italia in Europa. Forse vale la pena ricordare in proposito che, anche se oggi i rapporti tra i due non sono più quelli di una volta, Giorgio Napolitano e Mario Monti sono stati i protagonisti di una delle operazioni politiche più controverse degli ultimi anni: il “dimissionamento” forzato di Silvio Berlusconi nel novembre del 2011. In quella occasione in tanti ipotizzarono un concorso internazionale, da Obama alla Merkel, nella rimozione della mina Berlusconi, sta di fatto che, concluso lo scontro in aula tra Renzi e Monti, un senatore renziano ha sussurrato: “Se il professor Monti ha mandanti internazionali per aprire la strada a qualcun altro, stavolta gli andrà male”. A palazzo Chigi qualche sospetto comincia a serpeggiare su possibili movimenti ostili dalle parti di Berlino, Bruxelles, Londra e Washington, un sospetto avvalorato degli editoriali decisamente critici con Renzi, usciti negli ultimi venti giorni su testate come Financial Times, Frankfurter Allgemeine, New York Times.
L’altra Italia, quella della trattativa, nel passato ha usato altri metodi. Opposti. Esemplare il caso del Consiglio europeo del giugno 2012, dove si sommarono trattative felpate e un veto calato al momento decisivo. Erano le settimane nelle quali il sistema dell’euro era sull’orlo della rottura, la cura da cavallo imposta dal governo Monti non riusciva a debellare lo spread e in quella occasione il presidente del Consiglio, per forzare le resistenze della Merkel, preparò riservatamente una rete di alleanze, in particolare con Obama, col neo-presidente francese François Hollande e col primo ministro spagnolo Rajoy. E così, durante un Consiglio durato ininterrottamente 15 ore, prima la Spagna e poi l’Italia minacciarono di porre il veto e alla fine, con la Germania sulla difensiva, si posero le premesse politiche per la successiva dichiarazione di Mario Draghi: il famoso «whatever it takes», che pose fine all’assedio a Roma e Madrid sui mercati finanziari.
In riferimento alle teorie complottistiche ventilate in Senato riporto di seguito un interessante articolo comparso sulla rivista web eastonline.
Mentre negli Stati Uniti cresce il timore di uno scontro Donald Trump-Hillary Clinton per la corsa alla Casa Bianca, in Italia sta emergendo con sempre maggiore vigore un fenomeno preoccupante. È la teoria del complotto, dell’agente esterno che punta a destabilizzare i sottili equilibri di un Paese che dovrà fare i conti, prima o poi, con la realtà. Non quella del complotto o delle scuse. Non quella degli seguaci accondiscendenti, anestetizzati da una retorica a senso unico. A Matteo Renzi va riconosciuto molto. Il suo vigore e la sua spinta propulsiva sono stati un toccasana contro l’immobilismo italiano. Eppure, l’impressione è che qualcosa si sia rotto.
L’episodio è noto. Il presidente del Consiglio ha attaccato a distanza Mario Monti: «I tecnici ci hanno regalato gli esodati della Legge Fornero, il fiscal compact, le tasse sulla casa e la vicenda marò, il ball-in delle banche senza aver fatto come altrove la bad bank. E adesso pretendono di spiegarci come fare a risolvere i problemi che loro stessi hanno creato?». Parole dure, che però non tengono conto della situazione in cui si trovava il Paese fra il maggio 2011 e il marzo 2012. L’Italia aveva perduto quasi tutta la sua credibilità internazionale e rischiava di essere estromessa dal mercato obbligazionario. In altre parole, fra ottobre e novembre 2011, c’era il concreto timore che un’asta di titoli di Stato potesse non essere coperta. E serviva un cambio di rotta.
Quanto introdotto dalla Commissione Europea durante la fase più oscura della crisi, compresi il tanto odiato fiscal compact e l’ancor più odiato bail-in, era quanto di meglio si potesse fare in un periodo storico dentro il quale pure i funzionari europei navigavano a vista. Mai avevano dovuto fare i conti con quella immensa tempesta che si era scatenata. Eppure, nonostante l’isteria di quei mesi, l’Eurozona è ancora qui. E quei trattati nati in notti insonni garantiscono una buona base, anche sotto il profilo della flessibilità, per il futuro. Attaccarli non ha senso, a meno che non si sia in una sorta di campagna elettorale permanente che non solo danneggia il Paese in cui viene effettuata, ma anche il clima generale dell’area in cui quel Paese è inserito. Parlando con un alto diplomatico statunitense riguardo i recenti fatti italiani, è emerso proprio questo problema: «Perché sembra che Renzi sia in costante campagna elettorale? Perché lascia intendere che ci siano delle forze esterne che vogliono destabilizzarlo? Piuttosto, la domanda che mi dovrei porre è: come posso rendere la crescita italiana sostenibile senza l’aiuto delle banche centrali?». Una domanda legittima.
Il capitale riformatore di Renzi è uno dei più significativi esempi di come basti poco per prendere delle decisioni storiche. Tuttavia, la sensazione è che si sia perso di vista l’obiettivo di ogni governo che vuole lasciare una traccia importante nella storia del Paese in cui opera. L’orizzonte temporale d’azione, a meno che non sia un mero esecutivo di transizione, non deve essere limitato. Non deve quindi guardare ai prossimi due anni, bensì al prossimo decennio. Per farlo, non deve perdere tempo in sterili discussioni su chi cospira, su chi manovra, sul nemico esterno. Illudersi che l’attuale quadro macroeconomico – tassi prossimi allo zero, politica monetaria accomodante – sia eterno è quanto di più errato si possa fare. Il mercato obbligazionario è cristallizzato, ma è proprio per questo che gli investitori stanno cercando rendimenti laddove possono, cioè su asset che presentano un grado di rischio più elevato. In pratica, nasceranno altre bolle, oltre a quelle che già ora sono presenti.
Ferruccio de Bortoli, sul Corriere della Sera, ha commentato con lucidità quale è lo scenario in cui si sta muovendo l’Italia e quali sono i rischi futuri. «L’anestetico (o il metadone) della Bce non è infinito. La congiuntura favorevole di euro e petrolio è irripetibile. Se il nostro debito, nel rapporto con il prodotto interno lordo (Pil), non dovesse scendere dopo nove anni, come promesso, il Paese sarebbe nuovamente esposto alla speculazione dei mercati», ha scritto de Bortoli. E ha ragione.
Se si desidera evitare che la prossima ondata di crisi travolga il Paese occorre utilizzare quel realismo che non fa rima con la politica degli slogan, e nemmeno con complottismo. Non c’è una cospirazione contro Renzi, né contro l’Italia. C’è invece un problema di classe dirigente. O meglio, di corpi intermedi. Circondarsi solo di Yes Men non solo è dannoso per l’uomo comune, ma in questo caso anche per il Paese. Cosa accade a uno che riveste una posizione apicale e sotto di lui ha solo Yes Men? Semplice: viene polverizzato. Questo perché perde l’attaccamento con il piano reale e diventa schiavo dell’approvazione dei suoi. Non solo. La società, l’azienda, che ha un capo così non ha futuro, perché una volta che tutti gli Yes Men si trovano senza il loro apice, difficilmente potranno eleggere un nuovo numero uno, perché si autodistruggeranno in lotte intestine. Meglio quindi ricordare le parole di Niccolò Machiavelli a riguardo: «La condizione ideale per un principe è quella di essere ad un tempo amato e temuto, ma se non è possibile avere le due cose insieme è da preferire l’essere temuto».
Qualcosa cambierà? L’Italia tornerà davvero a essere protagonista sullo scacchiere internazionale? Difficile dirlo. Il pericolo è che la risposta sia negativa, a meno di uno shock talmente intenso da rimettere in carreggiata il treno. Del resto, come ha detto Umberto Eco a The Guardian nel 2011, «la paranoia della cospirazione universale non finirà mai e non puoi stanarla perché non sai mai cosa c’è dietro. È una tentazione psicologica della nostra specie». In pratica, tutti noi siamo propensi al complottismo. Eco, nel 2011, si riferiva a Silvio Berlusconi, il quale sosteneva di essere vittima del complotto contro di lui a opera dei comunisti, della magistratura, della stampa. Le similitudini con Renzi sono molte. I gufi, il vincolo esterno e la finanza internazionale sono ciò che, secondo Renzi, sta impedendo al Paese di essere ciò che potrebbe essere. Ma a forza di dare la colpa agli altri, c’è il rischio che non si riconoscano le proprie inefficienze, i propri errori. Il leader più lungimirante e illuminato, infatti, è quello che non trova una scusa, ma una soluzione.